Eravamo in un’arena. Il sole batteva ardente sulle nostre schiene nude e la sabbia bruciava sotto i nostri passi. La folla vociava. Ci guardammo. Sapevamo cosa dovevamo fare. Loro ci osservavano impassibili, dall’alto, in silenzio nel tumulto della gente, ed io e il mio amico avevamo paura. C’erano altre due persone con noi: la lama del coltello che stringevamo in mano era gelida e tagliente. Dovevamo ucciderli per reincarnarci nei loro corpi, così volevano loro. Allora presi la mano del mio compagno, per rassicurarlo, e ci dirigemmo verso le nostre vittime.
Il freddo metallo lampeggiò in alto, e quando il coltello penetrò nei loro cuori le nostre grida si levarono al cielo. Il dolore dei loro corpi ci trafisse improvvisamente: lo sentivamo dentro di noi, lo percepivamo come se fosse nostro, ma dalle invisibili ferite non sgorgò neanche una goccia di sangue. Il dolore era così atroce che, malgrado lottassimo per rimanere coscienti, ci spense i pensieri, lasciandoci immersi nel buio.
Correvamo, mano nella mano, in un campo riarso dal sole. Fuggivamo da loro, dalla nostra impotenza, ansimanti e sudati per la fatica. Una cicatrice bianca riluceva sul petto del mio amico, che mi trascinava con sé nella sua folle fuga.
Sentimmo finalmente una fresca brezza sui nostri volti, una brezza che veniva dal bosco che cresceva sotto i nostri occhi. Le liane fiorite emanavano profumi paradisiaci, bucolici, e sentivamo lo scroscio di un ruscello fra i rumori della natura. Così, ci addentrammo in quella selva aulente, passo dopo passo. Ci tenevamo per mano, vicini, e percepivo il suo respiro sulla mia pelle. Voleva andare avanti, mi disse, voleva vedere tutti i segreti che celavano le fronde dietro la loro quiete, scoprire ogni angolo di quella foresta vergine e melodiosa.
Sentii gli stivali sprofondare e guardai ai miei piedi: adesso stavamo camminando à passi strascicati in una melma putrefascente, mentre ancora i fiori sbocciavano sui rami degli alberi silvestri. Strattonai il mio compagno. Volevo tornare indietro, desideravo ardentemente sentire di nuovo quei profumi inebrianti pervadere le mie narici, ma il mio amico mi trascinava sempre più in quell’inferno. “Torniamo da loro, da loro, da loro”, mormorava, con gli occhi spalancati dal terrore. Le mie membra esauste non mi obbedivano più, e mi lasciavo tirare e strattonare verso il nulla.
I rami impregnati sferzavano le nostre guance e strappavano i nostri abiti bianchi, macchiandoli di vermiglio. Poi, dal fitto manto di vegetazione filtrò un raggio di luce. Una speranza, un’uscita. Lasciammo il terreno umido dietro di noi, correndo freneticamente verso l’ignoto. Inciampai.
Quando alzai lo sguardo, un paesaggio fumante e grigio si stendeva sotto i nostri occhi. Una distesa di rovina umana, carica di pianti e lamenti, che rimbombavano incessantemente nella nostra mente. Avevo sete, tanta sete. La polvere grigia ricopriva i nostri volti sfigurati. Guardai il mio compagno: quello non era il suo viso. In preda al panico, tastai il mio naso, la mia bocca, i miei occhi, ma non li riconobbi. Avevano raggiunto il loro fine.
Indietreggiai, barcollando fra le macerie, ma il mio compagno, che non era il mio compagno, mi trattenne e mi fece voltare. Un baratro si spalancava sotto e sopra di noi, e come in un caleidoscopio vedevamo mille volte riflessa la nostra immagine, che copiava i nostri movimenti, ogni volta un po’ diversi. Gli altri “noi” ci chiamavano, innalzando un richiamo malinconico, come una cantilena, e ci sentivamo irrimediabilmente attratti. Ci guardammo. Esitammo. Poi, saltammo nello specchio, incapaci di resistere.
Il freddo ci mozzò il fiato quando colpimmo la superficie limpida dell’acqua, e annaspammo, cercando di tornare a galla.
Gli spruzzi freschi ravvivarono i nostri sensi e la nostra mente: finalmente eravamo lontani da loro. Ridemmo e nuotammo, lavando via la pesantezza che ci voleva annegare e liberando la paura che ci aveva attanagliato. Passammo di fianco ad argentei pesci, che guizzarono via al nostro arrivo, e attraversammo banchi di coralli e alghe fluttuanti, dove si celavano migliaia di variopinte creature. Un venticello lieve increspava la superficie, facendola rilucere e brillare ai raggi del sole. Volevamo scendere più in basso, verso il blu profondo, ma non avevamo fiato a sufficienza per poter osservare tutto. Ma questo è ciò che rendeva quei segreti così preziosi.
Ridendo e pervasi dalla libertà, nuotammo verso riva, per poterci riposare. La spiaggia dorata ci attendeva, colma di rumori e mormorii che si mescolavano all’odore del sale.
Il sole batteva ardente sulle nostre schiene nude e la sabbia bruciava sotto i nostri passi. Sentimmo una folla vociare.
Eravamo in un’arena. Ci guardammo. Sapevamo cosa dovevamo fare. Loro ci osservavano ancora, impassibili, dall’alto, in silenzio nel tumulto della gente, ed io e il mio amico avevamo paura. C’erano altre due persone con noi. Avevano i nostri volti. Presi la mano del mio compagno, per rassicurarlo, e ci dirigemmo verso le nostre vittime.
Luna Maria Morot